Le arti marziali odierne nascono da stili di combattimento molto antichi, la base dei quali risiedeva nella fusione dei principi del buddismo indiano e del taoismo cinese.
Le prime attestazioni asiatiche relative a studi approfonditi del combattimento a mani nude risalgono ai primi secoli dell’era volgare: il Libro degli Han (Hanshu) di Ban Biao, completato dai figli Ban Gu e Ban Zhao all’inizio del II secolo d. C., descrive infatti nei dettagli svariate forme di combattimento a mani nude.
Il Giappone ha fatto proprie, sviluppato e rielaborato le arti marziali del continente fino a trasformarle in arti marziali nipponiche, e dunque come tali le ha esportate in tutto il mondo.
Le prime forme di arti marziali erano affidate ad una tradizione di tipo orale, che rende quasi impossibile oggi proporne una ricostruzione. Sappiamo solo che da una scuola istituita in un luogo sacro, Shaolin, presero vita stili di combattimento diversi, chiamati gli uni waijia, stili “duri” e gli altri neijia, stili “morbidi”, che, ispirandosi ai principi del taoismo, si concentrano sui metodi che permettono di rivolgere verso l’avversario la sua stessa forza, cedendo apparentemente al suo assalto. Gli stili morbidi in Giappone generarono il jujitsu, da cui sono derivati il judo di Jigoro Kano (1860-1938) e l’aikido di Morihei Ueshiba (1883-1969).
La leggenda vuole che il jujitsu, o «arte della flessibilità», sia stato sviluppato intorno alla metà del ’500 un medico di Nagasaki, Shirobei Akiyama. Applicando alle tecniche di lotta apprese in Cina le sue considerazioni sulla cedevolezza o «non resistenza», fondò la scuola yoshin, del «cuore di salice».
“La morbidezza può vincere la forza”: le molte scuole di jujitsu, pur con diverse sfumature, fecero proprio questo fondamentale concetto, che rivoluzionò la maniera di lottare.
Il jujitsu raggiunse il massimo splendore durante il lungo periodo di pace instaurato da Ieyasu Tokugawa all’inizio del XVII secolo. La fine delle guerre civili che avevano insanguinato il Giappone dal XII secolo, interrotte soltanto per respingere le invasioni mongole di Kublai Khan nel 1274 e 1281, lasciò disoccupati migliaia di samurai, «guerrieri al servizio di un signore», che divennero perciò ronin, «uomini onda», ossia guerrieri senza padrone, che determinarono il sorgere di scuole di arti marziali aperte a tutti.
Intorno alla metà del XIX secolo il Giappone uscì dal suo secolare isolamento, entrando in contatto con l’Occidente. Sotto l’infatuazione per la civiltà e i costumi occidentali, il budo subì una rapida decadenza, anche per l’enorme diffusione delle armi da fuoco, e l’arte marziale venne screditata e disprezzata.
Jigoro Kano nacque a Mikage, un villaggio nei pressi di Kobe, il 28 ottobre 1860.
Conseguì a Tokyo il diploma alla scuola di lingue straniere, imparando alla perfezione l’inglese, e s’iscrisse all’Accademia Kaisei. D’intelligenza vivissima, ma di gracile costituzione, il giovane Kano subiva la prepotenza dei compagni. Nel 1877 cominciò a praticare con passione il jujitsu, in quel tempo assai screditato, impegnandosi in duri allenamenti: sempre ricoperto di unguenti per medicare le numerose piaghe, era soprannominato “il profumato”. Fu allievo di Hachinosuke Fukuda e Masatomo Iso, della scuola Tenshin-shin’yo, dai quali apprese in particolare le tecniche di controllo e di percussione, venendo in possesso dei libri segreti della scuola dopo la loro morte. Conobbe quindi Tsunetoshi Iikubo, esperto della scuola Kito, da cui apprese soprattutto le tecniche di proiezione e di combattimento con l’armatura. Mentre progrediva con sorprendente facilità, penetrando i segreti dei diversi stili, nel 1881 ottenne la laurea in Lettere e cominciò ad insegnare al Gakushuin, la Scuola dei Nobili. Nel 1882 Kano aprì una palestra di appena 12 tatami in un tempio shintoista a Shitaya, radunandovi i primi allievi: nasceva così il Kodokan, dove il giovane professore elaborò una sintesi di varie scuole di jujitsu. Il nuovo stile di lotta, non più soltanto un’arte di combattimento, ma destinato alla divulgazione quale forma educativa del corpo e dello spirito, venne chiamato judo; «via della cedevolezza/flessibilità»: come precisò Kano nel 1922, si fondava sul miglior uso dell’energia allo scopo di perfezionare se stessi e contribuire alla prosperità del mondo intero. In sostanza Kano perseguiva una sintesi equilibrata fra virtù civile e virtù militare. Eliminò dalla disciplina tutte le azioni di attacco armato che potevano causare ferimenti gravi degli allievi. Successivamente studiò e approfondì il Nage waza (tecniche di atterramento al suolo) ottenendo così un sistema di combattimento efficace e appagante. Ma il vero e proprio cambiamento rispetto al jujitsu si ebbe con la formulazione dei principi fondamentali che regolavano la nuova disciplina: Seiryoku zen’yo, il “miglior impiego dell’energia fisica e mentale” e Jita kyo’ei, cioè “tutti insieme per crescere e progredire”.
Il Kodokan, con un occhio alla tradizione e l’altro al futuro, in breve acquistò grande prestigio, anche grazie alle importanti vittorie riportate su diverse scuole di jujitsu.
Cambiò più volte sede nei primi anni, passando da 9 allievi nel 1882 a 98 nel 1886, mentre il dojo raggiunse i 40 tatami. Nel 1886, dopo il clamoroso successo sulla scuola del celebre Maestro Hikosuke Totsuka( il Kodokan riportò 13 vittorie e 2 pareggi su 15 incontri), Kano ottenne l’incarico d’insegnare il judo alla polizia di Tokyo. Eliminati gli aspetti più violenti della disciplina marziale, il judo entrò perfino nei programmi scolastici: fu un risultato senza precedenti, dovuto alle grandissime capacità pedagogiche di Kano. Una delle sue massime preferite era: «Niente sotto il cielo è più importante dell’educazione: l’insegnamento di una persona virtuosa può influire su molte altre; ciò che è stato ben assimilato da una generazione può essere trasmesso ad altre cento». Kano ricevette significativi riconoscimenti. È bene ricordare che fu un personaggio di rilievo, non solo nello sport, nel suo paese: fin dal 1909 rappresentava il Giappone nel CIO e nel 1911 fondò il Comitato olimpico nipponico, di cui fu presidente fino al 1921, quindi presidente onorario, rettore del Collegio dei Pari, direttore della Scuola Normale Superiore, addetto alla Casa Imperiale, segretario del Ministero dell’Educazione Nazionale, direttore dell’Educazione Primaria, senatore, ecc. Nel 1895 Kano elaborò il primo go-kyo, ovvero i «cinque principi» d’insegnamento del judo, che revisionò nel 1921, mentre completava i kata, i «modelli» delle tecniche di lotta. Nel 1922, quarant’anni dopo la fondazione del Kodokan, diede vita alla Società Culturale del Kodokan.
L’Europa si dimostrò presto interessata alle arti marziali giapponesi, ma, a causa della confusione fra judo e jujitsu, si diffuse nel nostro continente una disciplina autarchica, che mescolava elementi di entrambe e che apparirebbe curiosa agli occhi di un judoka di oggi.
La prima dimostrazione di Jigoro Kano si tenne a Marsiglia nel 1889, ma fu nei primi anni del Novecento che l’Europa iniziò ad essere affascinata dalle arti marziali giapponesi. Questo avvenne anche grazie a combattimenti famosi, come quello che vide Ernest Régnier, esperto di judo e jujitsu, prevalere in appena 26 secondi su Georges Dubois, valente pugile, con una leva articolare. La notorietà acquisita lo portò a pubblicare nel 1906 un opuscolo dal titolo Les secrets du jujitsu.
Il presidente americano Theodore Roosevelt fu uno dei primi statunitensi ad appassionarsi alla disciplina, nella quale raggiunse il grado di cintura marrone. Presto, alla scuola di Edith Garrud, anche le donne praticarono il jujitsu.
In Italia il judo arrivò grazie all’iniziativa del Ministro della Marina Carlo Mirabello, che organizzò un corso sperimentale sull’incrociatore corazzato Marco Polo, al largo delle acque della Cina. Fu assunto a bordo un istruttore di judo–jujitsu, firmando così l’atto di nascita della “lotta giapponese” in Italia. Nei suoi primi anni, il judo fu anche insegnato alle scuole militari ed addirittura al corpo dei Caimani del Piave.
Per diffondere la disciplina, domenica 30 marzo 1924 i delegati di 28 società o gruppi sportivi civili e militari si riunirono nella palestra della Colombo per costituire la Federazione JuJitsuistica Italiana, che riconosceva come ufficiale il «metodo Kano», cercando di porre fine alla confusione fino ad allora dominante fra judo e jujitsu. Nel 1924 la Federazione diede inizio ad i Campionati Italiani, individuali ed a squadre.
In occasione dell’Olimpiade del 1948 venne costituita l’Unione Europea di Judo, con l’obiettivo di inserire il judo nel programma dei giochi olimpici, che presto si trasformò (negli anni Cinquanta) nell’attuale Federazione Internazionale di Judo, con l’inaugurazione dei primi campionati mondiali e tornei internazionali; nei quali ancora non erano universalmente accettate le divisioni di peso, che entrarono definitivamente in uso nel 1961.
A diffondere la conoscenza ed l’ammirazione per il judo fu anche uno dei più grandi artisti del Novecento, Yves Klein, che nel 1952 si trasferì in Giappone per studiare quest’arte marziale. Alla sensibilità propria di un artista come Klein si deve il merito di aver portato precocemente l’attenzione sui Kata, ovvero le forme stilizzate del combattimento, riequilibrando quella visione europea distorta che vedeva nel judo essenzialmente una forma di difesa personale, trascurando la parte rituale e spirituale, che pure era stata così importante per Kano.
Finalmente, alla XVIII Olimpiade (Tokyo 1964) il judo entrò nel programma dei giochi. Le categorie (solo maschili) erano quattro: fino a 68 kg, fino a 80 kg ed oltre 80 kg, più l’open. Proprio in quest’ultima divisione si consumò quello che venne vissuto dalla comunità internazionale come un punto di svolta: di fronte ad una folla raggelata dallo stupore, l’olandese Anton Geesink conquistò l’oro sconfiggendo per immobilizzazione Akio Kaminaga, il campione giapponese.
Il 23 ottobre 1966 ebbe luogo il primo campionato italiano femminile, anche se per la partecipazione delle donne ai campionati europei e mondiali si dovette aspettare rispettivamente il 1975 e il 1980. Nel 1988, invece, il judo femminile fu ammesso alle Olimpiadi come sport dimostrativo, ma piena dignità fu infine riconosciuta alle judoka con le Olimpiadi del 1992 (Barcellona). Curiosamente, dalla medaglia d’argento della giapponese Ryoko Tamura (-48 kg) atleta straordinaria, amatissima nel suo paese, prese ispirazione persino un manga di grande successo in Giappone, “Yawara”, che contribuì ad appassionare le bambine e le ragazze a questo sport.
Eleonora S.